Il Colore

di Francesco Catania

Il colore è la percezione visiva delle varie radiazioni elettromagnetiche comprese nel cosiddetto spettro visibile.
L’uomo vive immerso nei colori quasi senza accorgersene. Immerso in un campo bioelettrico con cui scambia bio-informazioni.


Il colore nasce dalla luce. La luce che colpisce un oggetto viene parzialmente assorbita a seconda del colore. La parte non assorbita viene riflessa e trasmessa ai recettori cromatici all’interno dell’occhio umano. Questi ultimi trasformano la luce assorbita in impulsi che percorrono le vie nervose fino a raggiungere il cervello, dove vengono interpretati: nasce così un’impressione cromatica.

Dal punto di vista prettamente biologico il colore si genera pertanto nell’occhio dell’osservato un’impressione sensoriale. A proposito di impressione sensoriale: ciascun individuo “percepisce” il colore in modo differente. Tale fenomeno non è riconducibile solamente al fatto che non esistono mai due occhi uguali tra loro. Anche l’interpretazione del colore varia infatti da individuo ad individuo. Perfino la stessa persona può percepire differentemente il colore in momenti diversi ed in base allo stato d’animo. Il colore stesso può pertanto generare sensazioni differenti. Alcuni individui percepiscono i colori a prescindere dalla luce. È questo ad esempio il caso di una particolare forma di sinestesia, la percezione uditiva dei colori, che consente di abbinare suoni, armonie o musica a determinati colori: solitamente i suoni più alti a tonalità chiare, quelli bassi a tonalità scure.

   I colori hanno un odore, un sapore, un suono.


W.Kandiskij, uno dei più grandi di artisti di pittura astratta, nelle sue opere espone le sue teorie su l’uso dei colori e sui possibili effetti sull’individuo.

Un effetto fisico, basato su sensazioni momentanee,  determinato dalla registrazione della retina di un colore piuttosto che di un altro.
Un effetto psichico dovuto alla vibrazione energetica, spirituale, prodotta dalla forza psichica   dell’uomo



Colori, forze capaci di raggiungere l’anima.

Definisce il colore in relazione al suo movimento vibrazionale, come caldo o freddo, orizzontale o verticale.
E sempre in base al movimento, descrive come i colori suscitano nello spettatore sensazioni ed emozioni e li paragona a strumenti musicali.

Che emozione suscitano i colori ?
Il Giallo abbaglia e respinge, è un colore prorompente indica 

eccitazione, superficialità e solarità.
L’Azzurro sfumature del blue, è il colore del cielo, indica calma quando è intenso, drammatico se tendente al nero.
Il Rosso è caldo, vivace, irrequieto. E’ consapevolezza che può essere canalizzata. Più chiaro è vitalità ed energia, più scuro mediativo.
L’Arancione esprime energia, movimento, ed è il più vicino al giallo.
Il Verde suggerisce opulenza, noia, compiacimento, più chiaro è energia e giocosità, più scuro pensierosità.
Il Viola è il colore della spiritualità, della connessione mente spirito, dell’intelletto.
Il Marrone è il colore dinamicità, del rosso sovrastata dal nero, oltre che testardaggine.
Il Grigio indica quiete come il verde, ma con l’assoluta mancanza di movimento
Il Nero è il non colore, la mancanza di luce, il silenzio, la fine di ogni cosa.
Il Bianco è il colore dato alla somma di tutti i colori dell’iride, è un muro di silenzio assoluto ma ricco di potenzialità.

Parlare di emozioni in una società dove siamo stati abituati a reprimere o mascherare non è poi così facile, ma sottovalutarle sicuramente conduce ad uno stato di chiusura verso noi stessi, gli altri, e verso la bellezza della vita in tutte le sue sfumature.
Certo è che la forza vibrazionale dei colori genera reazioni psicofisiche riequilibranti nell’individuo.                        
Un’emozione non vissuta provoca una serie di altre emozioni incontrollabili che scatenano un processo di malessere che finisce per travolgerci.

PARLIAMO DI: CONTORNI OPACHI di Anthony Caruana

di Simona Mileto

Titolo: Contorni opachi

Autore: Anthony Caruana

Casa Editrice: Bertoni Editore

Collana: Schegge

Sinossi

Augusto: un’esistenza al limite della follia, sul ciglio di una solitudine che si fa prigione. Matilde ed Elide: due modi di amare e di essere madri. Cosa accomuna il giovane alle due donne? Forse il semplice desiderio di sentirsi uniti, almeno per un momento, o forse l’urgenza di scoprire la verità.

Qualcosa sul libro…

È un romanzo diviso in tre parti, a più voci, una maschile e due femminili. La prefazione è stata scritta da Gino Saladini, medico legale, criminologo, opinionista per rai mediaset e sky.

La copertina è di Davide Marollo.

Ho letto il libro, è un lavoro brillante, multisensoriale, il lettore si trova davvero dentro la storia, vede i luoghi dove si svolgono le azioni, ne sente gli odori, cattura ogni minimo dettaglio grazie alle descrizioni magistrali.

I personaggi sono vivi, reali, e ognuno di loro racconta una storia, la sua, che si intreccia alle altre storie degli altri personaggi, innescando nel lettore la curiosità di sciogliere la trama e arrivare alla fine del romanzo.

Troviamo all’interno del libro le passioni dell’autore, dall’arte, alla musica e quest’ultima è così presente da essere protagonista, insieme ai protagonisti, della storia stessa.

Consiglio vivamente di leggere questo libro, affronta temi importati, come l’omosessualità, la solitudine, la violenza di genere, in una maniera così cruda e netta, che impone al lettore a riflettere.

UN CENNO SULL’ AUTORE

Anthony Caruana nasce a Derby, nel Connecticut (U.S.A.), nel 1978 e attualmente vive a Civitavecchia (RM).

È chitarrista arrangiatore compositore e insegnate di musica. Ha frequentato la scuola di scrittura creativa Omero con e attualmente prosegue la sua formazione presso la scuola di scrittura Genius.

Nel 2017 vince la Gara dei Racconti, il concorso del programma radiofonico Radio1 Plot Machine indetto da RaiRadio1, con il racconto Notizie Oltreoceano, pubblicato nell’edizione 2017 nell’ebook di Rai Eri, da cui è stato realizzato un cortometraggio con la regia di Paolo Strippoli, grazie alla Scuola Nazionale di Cinema. Nello stesso anno viene pubblicato il suo romanzo d’esordio dal titolo Venerazione, edito da Bertoni Editore e distribuito presso le principali librerie italiane e i maggiori store on- line.

A dicembre 2018 esce il suo nuovo libro, dal titolo Imperfezioni, per Bertoni Editore: una raccolta di racconti e foto, in collaborazione con il fotografo Davide Marrollo. Collabora inoltre come editor con la casa editrice Bertoni Editore ed è autore di racconti per alcune riviste online.

È curatore della collana “Schegge” per la casa editrice “Bertoni Editore”.

A settembre 2020 pubblica con la sua casa editrice il suo ultimo romanzo contorni opachi, che fa parte della collana schegge.

Gli insegnanti e la DAD. La mia esperienza…

Di Rosita Frisina

L’eccezionale situazione che sta vivendo tutta la scuola italiana a causa dell’emergenza COVID-19 ha messo sotto i riflettori l’urgenza, l’anno scorso, di attivare la didattica a distanza. La cosiddetta DAD.

Da docente che ho effettuato la DAD, in linea generale, posso affermare che per me è stata deleteria sotto tutti i punti di vista, perché non si può sostituire ad una relazione educativa e didattica in aula.

Molte insegnanti, compresa me, hanno avuto problemi con la tecnologia, a causa delle aule virtuali (piattaforme), spesso complicate e poco accessibili, è stata la prima grande difficoltà che abbiamo affrontato assieme agli studenti. Sono stati proprio loro, gli studenti, a fare da insegnanti (il rovescio della medaglia), e da qui in desiderio di noi tutti di tornate il prima possibile, in una vera aula con mura e finestre.

Ma è stata necessaria per stabilire e mantenere un contatto vivo con i propri alunni. Per la prima volta, sentirsi dire “le scuole rimarranno chiuse ha fatto paura anche a loro. Tante sono state le problematiche che sono emerse in questo nuovo modo di fare scuola.

In primis ha rischiato di trasformare la figura dell’insegnate in tecnici informatici che somministrano nozioni, esercitazione e verifiche, spegnendo l’interesse e la creatività di ogni alunno e ampliando le difficoltà dei soggetti più deboli. Va detto che gli sforzi da parte nostra sono stati molteplici per impedirlo.

La scuola è una comunità educante fatta di socializzazione, confronto, condivisione: la DAD ha favorito l’anonimato e ha creato alunni “invisibili” perché se non li vedi in video nessuno può cercarli e nessuno può chiedere che fine ha fatto quel bambino che non ha partecipato alla lezione, mettendo in evidenza le sue particolari peculiarità di apprendimento e non solo.

Aggiungiamo pure la questione della privacy  e qui mi riferisco di genitori che cercano di fare “opera di spionaggio” mettendo il naso nel rapporto tra insegnanti e alunni, dandoti suggerimenti di come e cosa fare, sono venuti meno i parametri della deontologia professionale propria dei docenti.

Per non parlare dei problemi strutturali di connettività e di strumenti delle fasce meno abbienti, senza giga per potersi collegare, senza stampanti per poter avere il materiale per fare i compiti, senza aiuti di adulti per scaricare tutto ciò che serviva loro.

Di sicuro la DAD ha creato molti problemi sia dal punto di vista psicologico oltre che didattico. Ha tolto il legame con il luogo fisico della classe e gli spazi in comuni e li ha portati a farli sentire più soli.

Sappiamo benissimo che le relazioni online sono molto diverse da quelle che si tengono in aula e questo ha creato un senso di disorientamento e disagio. È venuta a mancare una connessione naturale di empatia, che è essenziale per qualunque relazione e in particolare nel mondo della scuola, nella relazione tra studente e docente e tra di loro.

Dal punto di vista emotivo, gli insegnati, come me, sono costretti ogni giorni a percepire attraverso le immagini dei volti, emozioni negative: ansia, stress, paura, confusione più volte anche comunicato dai genitori, che sicuramente evidenziano grossi problemi di apprendimento, concentrazione e attenzione e per gli alunni con difficoltà li ha accentuati.

Il Covid-19 ha fatto pure questo…

La scuola per chi la vive in prima persona è vita. La vita non si mette dentro uno schermo di un PC.

L’ARTETERAPIA, CHE COS’E’

DI FRANCESCO CATANIA

Si definisce arterapia l’insieme delle tecniche e dei metodi che utilizzano le attività artistico-creative come mezzi di aiuto al recupero ed alla crescita dell’individuo nella sua sfera emotiva, affettiva e relazionale.

La prima forma di arteterapia è nata con
Friedl Dicker-Brandeis per supportare i bambini
nei campi di concentramento.
Da allora il modo di trasmettere l’artesi è maggiormente strutturato come metodologia e strumento utile con persone di tutte l’età, con o senza disagi fisici e psichici.  Attraverso l’esperienza dell’arteterapia, si rende possibile la ricerca del nascosto, del represso, del bizzarro.

L’arte diventa un modo per liberare ciò che blocca la persona è così si possono scoprire nuove risorse per migliorare la qualità della vita.

Arteterapia con F.D. Brandeis
In Europa, tra le due guerre, la prima pioniera dell’arteterapia,


fu Friedl Dicker Brandeis, che specializzandosi nel campo dell’arte tessile e fotografia, impara che l’arte può tessere un legame con la parola, il suono,  la forma, il colore, il gesto. Apre un negozio di belle arti e parallelamente inizia a collaborare con il Partito Comunista, dedicandosi all’attività politica clandestina, che la porta ad essere arrestata. Dal 1934 al 1938, diventa insegnante d’arte per i bambini del ghetto di Praga, dove ha modo di osservare come i suoi piccoli allievi utilizzavano l’arte per far fronte alla discriminazione e al sopruso, vissuto ogni giorno e per elaborare i traumi, i lutti e le violenze che alcuni di loro si trovavano a subire. Nel 1942, viene deportata nel campo di concentramento per le sue origini ebree e nel campo di transito di Terezin, diventa insegnante d’arte per centinaia di bambini, allontanati dalle loro famiglie e ricoverati presso i dormitori infantili del campo. A Terezin, con i suoi laboratori artistici, ella pone l’obiettivo di riequilibrare il mondoemozionale dei bambini attraverso le lezioni d’arte e i disegni creati dagli allievi. In questo modo sostiene e aiuta i ragazzi sottoposti a situazioni traumatiche.

L’evoluzione ad opera di E. Kramer e M. Naumburg


Negli Stati Uniti, a partire negli anni ’50, inizia l’esperienza più importante ai fini della definizione metodologica dell’arteterapia,
con la nascita dei due importanti orientamenti di arteterapia, legati ai nomi di Edith Kramer e di Margeret Naumburg.
La Naumburg, psichiatra e psicoanalista, elabora uno specifico approccio dell’arteterapia. Ella parte dal presupposto che i sentimenti inconsci sono più facilmente riconoscibili nelle immagini che nelle parole e stimola la comunicazione simbolica tra paziente e arte terapeuta, facendo riferimento alle immagini prodotte dal paziente sulle quali inevitabilmente vengono proiettate emozioni e vissuti personali. Le stesse immagini vengono analizzate attraverso la cornice teorica freudiana. La Naumburg elabora un metodo di orientamento dinamico, con cui utilizza l’arte come strumento per svelare significati inconsci, che vengono poi descritti e resi comprensibili, grazie l’utilizzo della comunicazione verbale utilizzata nella seduta di psicoterapia.

Diversa è l’impostazione di Edith Kramer: provenendo dal mondo dell’arte, riserva un valore particolare all’espressione artistica. La Kramer considera la terapia d’arte distinta dalla psicoterapia esostiene che le sue virtù curative dipendono da quei procedimenti psicologici che si attivano nel lavoro creativo. Attraverso le sue esperienze, la Kramer si è resa consapevole del grande aiuto dell’arte sia per il disagio psichico che nella sofferenza esistenziale. E’ a partire dalla sua esperienza di arteterapeuta con bambini ed adolescenti e dai suoi approfonditi studi psicologici che nasce l’elaborazione di una precisa linea metodologica che vede la centralità del processo creativo ed artistico nel percorso terapeutico e che rientra sotto il nome di “Arte come terapia”.

L’arte diventa terapia, il prodotto artistico rimane subordinato al processo e la tecnica terapeutica non cerca tanto di svelare e interpretare il materiale inconscio, ma diventa percorso significativo e simbolico in cui vengono attivate capacità, risorse e processi, diventando un vero e proprio mezzo di sostegno per l’Io, favorendo lo sviluppo del senso d’identità e promuovendo una generale maturazione. La Kramer sottolinea il fatto che l’arteterapeuta debba avere una profonda conoscenza sia dei processi artistici che delle caratteristiche e possibilità dei materiali proposti, condizione indispensabile all’intuizione artistica che deve sostenere la relazione terapeutica.     


Arteterapia: Oggi
Essa è una forma di intervento, nel quale si fa uso di differenti mediatori artistici al fine di favorire l’empowerment della persona o del gruppo, la piena utilizzazione delle proprie risorse e il miglioramento della qualità della vita. L’arteterapia si caratterizza come un approccio di sostegno non-verbale, mediante l’utilizzo di materiali artistici, basandosi sul presupposto secondo cui il processo creativo corrisponda a un miglioramento dello stato di benessere della persona, migliorandone la qualità del vissuto. Tra i mediatori artistici si annoverano: la danza, la musica, il teatro, la fotografia, la pittura. Questi mediatori artistici vengono usati in laboratori di arteterapia che rispettano tutte le regole del setting: lo spazio e il tempo sono ben definiti e tutto ciò che accade all’interno di tale spazio e tempo acquisisce un significato che facilita la comprensione del paziente. Questi laboratori sono un ambiente molto diverso dal classico studio dello psicologo. Il laboratorio è uno spazio ampio, luminoso e ricchissimo di stimoli. Vi si trova di tutto: carta, matite, colori, das, stoffe, lane, legno, farina, teli, burattini, strumenti musicali. Si può trovare anche uno spazio vuoto, libero da stimoli, da riempire come si vuole.
Nel laboratorio, su indicazioni dell’arteterapeuta, ci si può dedicare a:

Arti visive: si può disegnare, colorare, modellare das o creta, utilizzare   fotografie o filmati

Musicaterapia: si può ascoltare musica per favorire una maggiore attivazione o il rilassamento

Danzaterapia: con cui di certo non si apprendono coreografie ma si impara a    liberare il corpo consentendogli di esprimere pensieri, emozioni e sentimenti

Teatroterapia: che permette di comunicare con il corpo e con la voce, di   osservare il mondo con gli occhi di un altro e di giocare con ciò che è finzione e ciò che è verità

Gioco: si propongono i giochi che fanno i bambini: rubabandiera, nascondino,     lanciare la palla, ecc. Il gioco allena il bambino (e anche l’adulto) alla vita e gli permette la ricerca del sé, di un sé corrispondente ai proprio bisogni.



I Benefici
L’arteterapia potenzia l’autostima, migliora l’immagine di sé e il rapporto con gli altri, promuove il benessere e sviluppa le potenzialità individuali. L’arte dà gioia e con la gioia cadono le difese, sparisce la paura, la creatività coincide con l’essere vivi; nel creare e nel dipingere si è liberi, ci si permette di vivere esperienze di trasgressione e di libertà. L’arteterapia, vissuta come un’attività ludica e divertente, accompagna l’individuo in uno dei viaggi più affascinanti dell’uomo: la scoperta di se stessi.            


Sogno di dipingere e poi dipingo il mio sogno.
– Vincent Van Gogh.

L’arte dovrebbe tranquillizare chi è disturbato e disturbare chi è tranquillo
– Banksy


FONTE PER RICERCA E IMMAGINI : IL WEB


ODON

IL ROMANZO FANTASY

di Simona Mileto

Ho deciso di pubblicare il primo capitolo del mio romanzo fantasy. Purtroppo a causa della pandemia, non abbiamo potuto fare nessuna presentazione.

spero di ricevere tanti commenti e finalmente potermi confrontare con chi mi ha letto o inizia a leggere queste prime pagine. Grazie.

Simona Mileto
ODON
Romanzo

Capitolo 1
Per quello che mi ricordavo avevo sempre vissuto in orfanotrofio.
Mi avevano trovata davanti al cancello avvolta in una calda coperta
nei giorni in cui la primavera faceva il suo ingresso. Nessuna lettera
che spiegasse il perché mi avessero abbandonata, nessun segno
particolare di riconoscimento, solo quella coperta e una catenina
d’oro che tenevo stretta in una mano con un pendente a forma di
folgore, dove inciso, se si guardava attentamente, si poteva leggere il
mio nome: Odon.
Non ero completamente sola, qualcuno si ricordava di me. Ogni
mese l’orfanotrofio riceveva una somma di denaro da impiegare per
ogni mia necessità, per farmi vivere adeguatamente. Poche righe, nel
biglietto che accompagnava l’assegno; per firma, la saetta d’oro. Ogni
anno arrivava sempre puntuale un regalo per ricordarmi la data in cui
ero stata abbandonata, sul biglietto sempre quella dannata saetta.
Non avevo mai aperto quei regali; non mi interessava ricevere
qualcosa da persone che avevano voluto separarsi da me.
Mi ero convinta di non meritare niente dalla vita, pensavo di essere
un abominio, di avere qualcosa di strano che cresceva dentro di me,
qualcosa di orribile visto che neanche i miei genitori riuscivano a
sopportare la mia presenza.
Ma le cose stavano per cambiare…
Era il giorno del mio quindicesimo compleanno, le mie compagne
e amiche erano riunite nel giardino della comunità a festeggiare. Tutte
venivano a farmi gli auguri sistemando i loro doni su un tavolo vicino
alla torta; notai, sorpresa, che non c’era il pacco grande con la folgore.
Non me ne rammaricai, sapevo che prima o poi sarebbe successo:
anche loro si erano stancati di me e cercavano di dimenticarmi.
Alle undici in punto tagliammo la torta e scartai i regali. Ricevetti
oggetti dei quali non avevo mai sentito l’esigenza, ma in fondo bastava
il pensiero! Oltre a esso, mi rimaneva anche quella sensazione
fastidiosa che stringe la bocca dello stomaco come in una morsa e che
insinuò in me il doloroso dubbio che nessuno mi conoscesse
realmente. Tutte quelle ragazze che consideravo amiche non avevano
la minima idea di chi fossi io. Come potevo rimproverarle se
neanch’io lo sapevo?
A mezzanotte tutte tornarono nelle proprie stanze e anch’io,
stanca, mi avviai verso la mia, contenta che finalmente quella serata
fosse giunta al termine.
Avevo solo voglia di buttarmi sul letto; ero così stanca che mi
sfiorò persino l’idea di dormire vestita.
I miei piani, però, vennero mandati in fumo da una visita inattesa:
qualcuno stava bussando alla mia finestra.
Pensavo fosse Alex, il mio miglior amico, che veniva a darmi la
buonanotte come ogni sera. Era un orfanotrofio femminile il nostro,
e a lui non era permesso l’ingresso. Avevo incontrato Alex per la
prima volta durante l’inaugurazione del padiglione greco al museo. Lo
avevo visto davanti a un affresco raffigurante Le fatiche di Eracle.
L’avevo guardato incuriosita: mi aveva affascinato il modo in cui
osservava meticolosamente ciò che aveva davanti. Sembrava
esaminasse dettaglio dopo dettaglio con occhio critico. Anch’io mi
ero avvicinata per vedere l’affresco.
Anche se concentrato, si era accorto subito della mia presenza.
Aveva posato il suo sguardo su di me e con un grande sorriso e una
gentilezza infinita, contrastante con la sua figura da macho palestrato,
aveva allungato la mano verso di me e si era presentato.
Avevamo iniziato così a parlare, e io mi ero dimenticata con chi
fossi e perché mi trovavo lì, tanto che avevo perso di vista il mio
gruppo.
Alex parlava in un modo così affascinante! In quell’occasione mi
aveva spiegato che la raffigurazione non rispecchiava proprio la
verità, che Eracle era un Dio in Terra e per questo aveva accettato le
fatiche che gli erano state imposte e le aveva superate tutte con
successo.
Sapeva così tante cose che non mi ero persa niente della mostra.
Quell’incontro casuale fu il primo di una lunga serie. Quando potevo,
sgattaiolavo di nascosto fuori dall’orfanotrofio e ci incontravamo al
parco. Con lui imparai, di nuovo, a fidarmi di una persona; sapevo di
potergli raccontare tutto perché ero certa che avrebbe custodito i miei
più intimi segreti.
Mi insegnò quello che sapeva sui miti greci, mi portava libri che
aveva letto e sottolineato e a volte anche modificato, scrivendo come
pensava che fossero andate realmente le cose. Fui rapita anch’io da
quel mondo. Mi affascinava credere nell’esistenza di Dei che
vegliavano sulla natura.
Quella sera non era lui…
Mi avvicinai alla finestra, aprii e tornai di nuovo a sedermi sul letto,
troppo stanca per aspettare che entrasse.
Improvvisamente una luce mi costrinse a chiudere gli occhi. D’impulso
mi alzai. Quando riuscii di nuovo a vedere, non potevo credere a
quello che avevo davanti. Una donna, bellissima, dal viso roseo e dai
lineamenti fini, i capelli biondi lunghissimi che cadevano a boccoli
lungo le spalle, mi stava squadrando dalla testa a piedi. Io cercai di
avvicinarmi alla porta per poter scappare, ma non si apriva, era chiusa
a chiave.
«Inutile che provi ad andare via. Ho bloccato la porta e ho insonorizzato
la stanza, nessuno ti può sentire!» mi disse con voce tranquilla. Io mi
agitai ancora di più: cominciai a urlare e a battere i pugni contro la
porta, ma dopo un po’ mi accorsi che nessuno udiva le mie urla e così
mi abbandonai al mio destino…
Possibile che le mie preghiere erano state esaudite? Avevo più
volte invocato la morte per una vita che non sentivo mia, ero
inadeguata, incompresa. Eppure, sapevo di poter dare tanto, ma
nessuno era pronto ad ascoltarmi, nessuno mi dava retta. Ero sempre
stata quella che neanche i genitori avevano voluto!
«Non devi aver paura di me, non voglio farti del male» mi disse
cercando ancora di rassicurarmi, interpretando dai miei gesti il mio
stato d’animo.
«Non ho paura!» mentii. «Dovrei averne forse?» il mio tono era
aggressivo per mascherare la voce tremula. Pur temendo la donna che
avevo davanti, la mia voglia di sapere era superiore.
«No, non dovresti!» ribatté secca. «Avresti dovuto riconoscermi,
mi aveva assicurato che eri pronta… Tu non hai idea di chi io sia,
vero?».
La guardai accigliata. Perché quella donna era così sicura che io la
conoscessi? Chi le aveva detto che ero pronta? Ma pronta per cosa?
Mi sentivo frastornata, avevo una grande confusione in testa.
Cominciò anche a insinuarsi in me il dubbio che quello che stavo
vivendo non fosse reale.
«Che razza di domanda è questa? No, non ti conosco. Credimi, se
ti avessi già visto mi ricorderei di te!» risposi sarcasticamente.
Da quando quel bagliore mi aveva accecato, nella mia mente erano
riaffiorati ricordi lontani di persone e posti, ma non potevano essere
miei. Come era possibile che ricordavo frammenti di vita che in realtà
non avevo mai vissuto? La mia vita era sempre stata dentro quelle
mura.
«Ma io non ti sono neanche un po’ familiare?» continuò a dire,
mentre la fissavo interdetta.
«No, mi dispiace, non so chi tu sia… ora vattene!» le dissi
minacciandola e indicandole con il dito la finestra dalla quale era
entrata. Sapevo di mentire spudoratamente, al contrario, il suo viso
mi era molto familiare e probabilmente per questo non mi era preso
un colpo vedendola apparire in camera mia, tuttavia non riuscivo a
capire chi fosse e tantomeno perché era nei miei ricordi.
«Bene!» continuò lei incurante della mia minaccia. «Allora mi
dovrò muovere con cautela. Cosa ricordi di te? Della tua vita? Ci sono
stati degli episodi che ti hanno fatto credere di essere diversa?».
Quelle domande mi colpirono profondamente, tutta la mia vita,
anche se breve, si era basata sulla diversità, ma come faceva lei a
saperlo? Poche erano state le persone alle quali avevo confidato i miei
segreti. Eppure, la sicurezza con la quale parlava era sorprendente,
sembrava convinta di conoscermi da sempre.
Decisi di assecondarla, dovevo capire. Intanto tenevo sempre la
porta: prima o poi la maniglia sarebbe scattata.
«Benvenuta nel mio mondo!» le dissi infine usando ancora un tono
sarcastico. «Io mi sento diversa da quando ne ho ricordo e so che
questo posto non mi appartiene, ma non so perché. Sono stata
abbandonata qui ancora in fasce da genitori che, a quanto pare, non
mi hanno voluto nella loro vita. Pensi che questo sia sufficiente per
far sentire una persona diversa?».
Non avevo mai pronunciato quelle parole ad alta voce, era l’unico
cruccio che tenevo ancora per me. Quelle parole, che tormentavano
da anni il mio cuore, mi erano uscite così, senza volerlo.
«Mi dispiace!» mi disse abbassando lo sguardo con voce affranta.
«Non te lo meritavi, ma è stato per il tuo bene, almeno così ci ha detto,
per questo nessuno l’ha impedito» le parole che farfugliò per me erano
prive di significato. Come poteva essere colpa sua se la mia vita faceva
schifo? E, soprattutto, di chi parlava? La testa stava per esplodermi e
quelle immagini che apparivano come ricordi peggioravano le cose.
«Chi sei?» le chiesi realizzando solo in quel momento di non sapere
il nome della mia interlocutrice.
Se avesse risposto a quella semplice domanda forse avrei capito
tutto.
«Adesso ti racconto…» mi disse lei, sapendo che un semplice
nome non avrebbe colmato le mie lacune, «ma tu siediti! Non stai
affatto bene» dal tono della sua voce si sentì la sua preoccupazione.
Mi tese la mano per aiutarmi, ed io accettai il suo aiuto.
Lasciai la porta, la mia possibile via di fuga, mi rimisi a sedere sul
letto aspettando che cominciasse a parlare. La vidi concentrarsi su un
punto del pavimento, l’angolo di una mattonella che avevo rotto
facendo cadere la lampada a terra; ricordo che all’epoca avevo pianto
più per la lampada che avevo frantumato che per la mattonella
incrinata. Sicuramente lei stava cercando di raccogliere le idee per
esser più chiara possibile, ma la pazienza non era una virtù che
possedevo.
«Sono seduta. Allora? Quando vuoi iniziare?» le chiesi con finta
spavalderia.
«Afrodite è il mio nome!» si presentò lei aspettando una mia
reazione.
«Afrodite!?» esclamai stupita. Conoscevo solo un’Afrodite,
descritta nei libri che mi aveva regalato Alex come una donna
bellissima, capace di addolcire ogni predatore e ammaliare chiunque
con il suo fascino. E quella era solo un mito.
«In carne e ossa. Come al solito la mia fama mi ha preceduta!» mi
disse lei con una punta di orgoglio. Non si accorse minimamente del
mio scetticismo.
«Sono qui per condurti in un posto» continuò lei.
La parte razionale di me cominciava a sentirsi ridicola, ma una
sensazione che arrivava dal profondo del mio cuore, avvalorata anche
da quei ricordi che stavano diventando una certezza, indelebili nella
mia mente, mi diceva che avrei dovuto assecondarla.
«Ti giuro sulle saette di Zeus che è la verità!» proseguì lei alzando
un po’ la voce infastidita dal mio stare in silenzio a guardarla.
«Perché? E soprattutto dove vuoi portarmi?» le chiesi.
«So molte cose su di te che tu non sai» continuò lei, ignorando le
mie domande, nella speranza che io mi ritrovassi nelle sue parole, «io
posso spiegarti perché ti senti diversa: perché non sei di questo mondo,
perché sei speciale». Io non lo avrei mai detto, non in senso positivo,
eppure lei ne era convinta.
«Continua!» la invitai io, ormai rapita dalle sue parole.
«Tu sei nata e vissuta come immortale» mi annunciò senza
preamboli, «tu appartieni all’Olimpo!» fece una pausa, forse per
vedere una mia reazione, ma io non le dissi niente: la mia mente stava
elaborando; quella realtà, per assurdo, non mi sembrava così assurda.
«Qualcuno ha tentato di ucciderti» riprese lei, «e tuo padre, Zeus,
prima che la tua essenza si spegnesse definitivamente ti ha reincarnato
nel corpo di una neonata umana, aspettando il momento giusto per
riportarti a casa, dalla tua famiglia. Questa è l’età in cui i tuoi poteri e
la tua vera natura si mostreranno a te, e il corpo umano non sarà più
in grado di contenerli se non torni immediatamente a essere una
Dea!».
Afrodite sembrava aver finito il suo discorso, stavo per spiegarle
come mi sentivo, quando qualcosa me lo impedì. Un dolore
lancinante alla testa mi piegò in due fino a farmi cadere a terra priva
di sensi.
Mi vidi dormire in un letto enorme, comodissimo, pieno di cuscini e con
lenzuola di seta bianche come la neve, potei sentire la sensazione di freschezza
sulla mia pelle. Un rumore aveva interrotto il mio sonno, ma non avevo fatto in
tempo ad aprire gli occhi, che una fitta al cuore mi aveva bloccato il respiro…
avevo lanciato un urlo, gridato così forte da farmi male la gola, vedevo sangue
dappertutto, il mio sangue… sentii il dolore come se lo provassi in quel momento,
e l’angoscia e il panico presero il sopravvento. Non volevo più rivivere
quell’esperienza, volevo dimenticare.
«Odon, ti prego, svegliati!» mi implorò Afrodite spaventata dalle
mie urla. «È tutto finito, ora ci sono io a proteggerti, non accadrà più».
A quelle parole ritornai in me, e vidi Afrodite guardami con occhi
dolci, quasi materni.
«Finalmente!» disse con un respiro di sollievo. «Mi stavo
preoccupando, hai urlato e goccioline d’acqua ti scendevano dalla
fronte». Ovviamente, la Dea della bellezza non sapeva cosa significasse
sudare.
«Mi dispiace… credo di aver avuto una… visione» mi giustificai
cercando di asciugarmi la fronte.
«Una visione?» replicò come per capire meglio; era preoccupata
per me.
«Ho rivissuto la notte del mio assassinio… credo. Qualcuno mi ha
accoltellato nel sonno, non sono neanche riuscita ad aprire gli occhi,
non ho visto chi è stato, ma è stato orribile!» le raccontai sbattendo il
corpo per levarmi di dosso quella terribile sensazione.
«Quindi ricordi adesso?» mi chiese quasi euforica, dimenticando il
mio stato d’angoscia.
«Non tutto, ho solo frammenti di ricordi, ma non li sento del tutto
miei, non so come spiegare…». Dopo quella visione ancora un
dubbio mi tormentava: «Perché dovrei ritornare sull’Olimpo dopo
quello che mi hanno fatto? Non c’è un modo per contenere i miei
poteri stando qui? Chi mi assicura che non tenteranno di uccidermi
di nuovo?». Ero anche curiosa di sapere come fosse fatta la mia casa,
ma quel ricordo mi aveva terrorizzata.
«Ora è tutto diverso. Chi ti voleva far del male, chi muoveva le
redini, è stato allontanato. E poi, vuoi darla vinta a loro? Non vuoi
vendicarti per quello che ti è successo?» mi chiese per spronarmi,
perché ritrovassi la grinta. «Neanche qui sei al sicuro: come ti ho
trovata io, seguendo la tua scia, può trovarti anche chi ti vuole
uccidere. Poi, cosa più importante, Zeus ti sta aspettando, non vede
l’ora di poter riabbracciare la sua piccola Dea».
Se fosse stato vero quello che mi stava dicendo, la mia vita sarebbe
cambiata, io facevo parte di quel mondo di cui Alex mi raccontava
sempre, e del quale ero rimasta tanto affascinata fino a innamorarmene.
Afrodite non era frutto della mia immaginazione, lo sentivo.
Qualcosa dentro di me mi diceva che era tutto reale. La voglia di andar
via, di abbandonare quella vita che non mi apparteneva, cresceva in
me velocemente, facendo sparire dubbi e paure. I miei occhi
incontrarono il proprio riflesso allo specchio e parvero accendersi di
nuovo entusiasmo.
«Andiamo!» le dissi sorridendo. «Sono pronta!»
Lei mi sorrise a sua volta, mi prese per mano e ci sollevammo da
terra. Rimasi sorpresa all’inizio, ma poi tutto fu così normale e
naturale per me, come se l’avessi sempre fatto. Uscimmo dalla finestra
e cominciammo a sollevarci in volo sempre più in alto fino a toccare
le stelle.
Da lassù non distinguevo più l’orfanotrofio e neppure il paesino
nel quale abitavo.
D’un tratto ci fermammo; Afrodite si portò le dita in bocca, fischiò
tre volte, e dopo un po’ in lontananza cominciò a vedersi qualcosa:
era un cavallo bianco, alato, che ci avrebbe portato all’Olimpo. Non
potevo credere ai miei occhi, era magnifico, maestoso, ed era lì
davanti a me.
L’animale sembrava conoscermi, si avvicinò senza alcun timore e
strofinò il suo muso affusolato sulla mia mano per farmi capire che
voleva essere accarezzato.
«Ti sta salutando!» mi disse Afrodite, «Ha riconosciuto la sua
padrona… Sali senza timore» mi rassicurò. «Pegaso ci porterà a
destinazione, conosce la strada».
Ascoltai le parole di Afrodite e il cavallo non fece nessun
movimento strano.
Il viaggio sembrava lungo e ne approfittai per fare delle domande
nella speranza di ricordarmi qualcosa.
«Afrodite, io so, riguardo agli Dei, quello che la gente comune
conosce, ma qual è la realtà?» mi sentii stupida a farle quella domanda,
ma da qualcosa dovevo pur cominciare.
«Molte delle cose che si sanno sul nostro conto le abbiamo diffuse
noi, altre sono conseguenze delle nostre azioni seppur cerchiamo di
limitare i danni che provocano alla nostra madre Terra. Anche se non
ci teniamo molto a farlo sapere, interagiamo con i mortali. Sarebbe
una catastrofe se gli umani scoprissero che esistiamo davvero.
Verrebbero a conoscenza di un mondo che non sarebbero in grado
di gestire, i loro stessi ideali cesserebbero di esistere».
«Non vi interessa essere venerati da loro come in passato, esigere
la vostra fetta di gloria?» le chiesi.
«Chissà, un giorno forse sarà di nuovo possibile, ma non ora, non
in questi tempi» mi rispose speranzosa.
«Quindi sull’Olimpo vedrò Zeus?» le domandai per cambiare
discorso.
«E non solo! Anche gli altri. Vedrai, ti ritornerà tutto in mente»
concluse sorridendo, ma non era un sorriso sincero, sentivo che mi
nascondeva qualcosa.
«Siamo quasi arrivate manca poco» mi annunciò distogliendomi
dai miei pensieri. Il suo compito l’aveva svolto: io ero arrivata
sull’Olimpo di mia spontanea volontà.
«Non vedo l’ora!» le risposi senza pensarci troppo.
«Come potrai immaginare» continuò, «il tuo arrivo non sarà
apprezzato da tutti… molti provano invidia; devi capire che sono
tanti quelli che aspirano al tuo posto, tu sei la preferita di Zeus,
ricordatelo! Nessuno può prendere ciò che è tuo di diritto».
«Quale posto?».
«A tempo debito saprai».
«Sei certa che tornare sull’Olimpo sia sicuro per me? Non c’è altro
modo per contenere i miei poteri?» le chiesi di nuovo titubante.
«Zeus mi ha pregato di portarti qui. È giunta l’ora che tu ritorni
dalla tua famiglia. Ti ho già spiegato: ormai la tua energia si sta
palesando di nuovo e da terrestre non riusciresti a controllarla».
«Ho paura di non farcela, non ho poi tutte queste capacità!» le
rivelai.
«Non ti preoccupare, è normale che tu ti senta a disagio, ma,
credimi, hai tutte le potenzialità che servono a farti diventare quello
che vuoi, e, se proprio hai bisogno di qualcuno che ti sostenga, io ed
Eracle, che siamo i tuoi fratelli e consiglieri nominati da Zeus in
persona, ti daremo una mano a ritornare in te».
La guardai con ammirazione e affetto, era importante per me
potermi fidare di qualcuno in un luogo dove non conoscevo nessuno
e la mia vita era in pericolo.
Finalmente vedevo l’Olimpo. Era uno spettacolo bellissimo, il sole
affiancava il palazzo sopra la montagna, le luci del primo mattino
davano un aspetto quasi irreale a tutto il panorama.
Pegaso atterrò con dolcezza in un viale che portava al palazzo. Mi
voltai per guardarmi intorno. Di fianco al viale c’era un cespuglio di
rose già sbocciate di colore blu e argento.
«Queste rose…» i ricordi emergevano come sogni, sentivo che
facevano parte di me.
«Vedi!?» mi disse con un sorriso. «Cominci a ricordare. Queste rose
sono tue!» mi annunciò.
«Ma io odio le rose» le dissi senza pensarci, infatti non ero mai
stata un’amante dei fiori.
«Quelle sulla Terra, forse!» continuò lei. «Queste tu le amavi. Non
ho mai capito cosa rappresentassero per te, ma non permettevi a
nessuno di avvicinarsi tranne che a Zeus che te le aveva regalate»
m’informò lei.
«Non ricordo, cerco di farlo, ma non ci riesco» era frustrante.
«Non ti preoccupare, ogni cosa a suo tempo. Adesso vieni!». Era
così dolce e ammaliante il suono della sua voce che ogni mio dubbio
svaniva.
«Dove andiamo?» le chiesi ritornando in me.
«Nella sala del trono, per rivedere la tua famiglia».
Quello che avevo davanti era un enorme tempio greco, ma, non
come quelli che si vedono sulla Terra. Certo aveva lo stesso stile, ma
era più prezioso e pretenzioso. Otto erano le colonne di pietra
candida che contai per la facciata, quattro da un lato e quattro
dall’altro. In mezzo a esse c’erano sette gradini che portavano a un
arco tutto in oro che brillava alla luce del sole: era la porta d’ingresso
al Tempio.
Le colonne laterali si perdevano tra le nuvole, impedendomi di
capire quante fossero in realtà. Ogni singolo particolare era nuovo per
me, ma allo stesso tempo non lo era, come se in quel palazzo ci fossi
già stata, come se quel viale lo avessi percorso un’infinità di volte.
Come se fossi finalmente a casa.
«Ora dobbiamo entrare. Ci aspettano» mi avvertì. Prendendosi
ancora qualche minuto prima di aprire.
«Sono pronta!» affermai mentre raccoglievo il coraggio.
Entrammo nell’edificio. C’era un corridoio lunghissimo pieno di
specchi alle pareti che, riflettendo la luce, illuminavano il passaggio.
Davanti a noi, una porta.
«La sala del trono!» le parole mi uscirono fuori senza passare prima
dal cervello.
«Esatto! Mi fa piacere che cominci a ricordare».
Anch’io ero sorpresa.
Pezzo dopo pezzo i ricordi affioravano alla mia mente, ricordi
molto lontani nel tempo; arrivati davanti alle porte cominciai a
tremare, ma non per paura o emozione, per un altro ricordo: due
occhi che mi fissavano con odio, perché?
La voce di Afrodite mi fece ritornare alla realtà.
«Dobbiamo entrare» mi disse rassicurante.
Con un semplice gesto delle mani la Dea spalancò la pesante porta
e quelle voci che bisbigliavano nell’attesa del mio arrivo cessarono
immediatamente. Ogni sguardo era per me, tutti quegli occhi
immortali erano su di me, ed io non avevo la più pallida idea di cosa
fare. Era la mia famiglia. Nonostante i miei dubbi mi sentivo a casa.
Finalmente sapevo chi ero. La mia vita sarebbe cambiata. Non ero
più la ragazzina abbandonata in orfanotrofio dai genitori. Io ero
Odon, figlia di Zeus.
Non solo avevo ritrovato la memoria, aprendo quelle porte avevo
scoperto di nuovo me stessa. La paura era sparita, l’ansia e l’agitazione
non mi appartenevano più. Il mio essere era riaffiorato facendomi
scoprire sentimenti che non sapevo fossi in grado di provare.
Tutti se ne stavano immobili a fissarmi, così decisi di essere io a
rompere il ghiaccio. Corsi verso mio padre e lo abbracciai forte. Un
gesto teatrale che fece irrigidire un po’ tutti, ma le regole non erano
mai state il mio forte.
«Padre, mi siete mancato, solo ora capisco cos’era quel vuoto che
avevo nel cuore, e quel panico che accompagnava tutte le mie notti.
Sono felice di essere tornata a casa». Salutai tutti quasi allo stesso
modo e con lo stesso entusiasmo. Un saluto speciale lo riservai a zio
Ade, il mio zio preferito, anche se era il Dio dell’Oltretomba aveva
un cuore d’oro e amava con passione. Poseidone fece una smorfia,
ma sapevo che era contento di vedermi; stranamente avevo un bel
rapporto col mare, ma pessimo con il suo Dio. C’era anche Ares tra
la folla: il Dio della guerra, quel mio fratello che più di tutti mi voleva
morta.
Mi dissero che la Dea allontanata dall’Olimpo era Hera, mia
madre, il probabile aggressore di quella notte, anche se io nutrivo dei
dubbi: Hera avrebbe potuto essere la mandante, ma non si sarebbe
mai sporcata le mani. C’era qualcun altro che voleva che io non
tornassi sull’Olimpo? L’avrei scoperto.
«Figlia mia» mi disse Zeus dopo che ebbi parlato un po’ con tutti,
«aspettavo questo giorno con ansia, nel quale tu saresti rinata Dea,
accanto a me!».
«Oh padre!» ero così emozionata per quelle parole che mi venne
quasi da piangere.
All’improvviso, tra tutti quei volti, vidi una persona che conoscevo
benissimo, si stava nascondendo dietro una colonna alle spalle di
Zeus.
«Alex!» lo chiamai quasi urlando.
Mi allontanai da Zeus e gli corsi dietro, volevo capire che ci facesse
lì. «Alex!» lo chiamai di nuovo, così lui fu costretto a uscire da dietro
la colonna.
«Odon!» mi rispose imbarazzato.
«Allora sei tu!?» gli chiesi, e non sapevo se fossi più furiosa o
scioccata.
«Ero l’unico Dio che non avevi mai visto, per questo hanno scelto
me» si giustificò.
«Potevi dirmelo» gli dissi abbassando la voce.
«Non potevo!» m’informò lui.
A Eracle era stato dato l’ingrato compito di tenermi d’occhio per
non farmi correre pericoli inutili fino a che non avessi compiuto
quindici anni e fossi ritornata sull’Olimpo. Così era sceso sulla Terra
con il nome di Alex.
Non era previsto che lo conoscessi e che diventassimo amici, ma
era successo e lui aveva tenuto nascosto il rapporto che si era creato,
altrimenti non gli avrebbero più permesso di seguirmi.
Compresi le sue ragioni, la mia rabbia andò pian piano scemando:
in fondo era Alex, il ragazzo che si arrampicava fino alla finestra della
mia camera in orfanotrofio solo per darmi la buonanotte. Mi aveva,
di nascosto, insegnato molto sul nostro mondo per arrivare preparata
a quello che mi attendeva. Adesso che sapevo la verità tante cose che
prima non capivo cominciavano a chiarirsi.
Mi sistemai nella mia nuova stanza, che non aveva niente a che
vedere con quella dell’orfanotrofio: un letto enorme, un salotto nella
camera adiacente e uno splendido balcone vista cielo che mi faceva
godere di un panorama mozzafiato… e del roseto.
Non so perché, ma quel quadrato di rose non mi piaceva per
niente, apprezzavo di più il viale illuminato da migliaia di lucciole
sospese in aria che rendevano speciale ogni cosa intorno.21
Mi distesi sul letto. Cominciavo a sentirmi svuotata, quelle
emozioni mi avevano stremata. Ora ricordavo quasi tutto. Non
sapevo ancora una cosa: perché Hera aveva tentato di uccidermi?
Perché aveva messo contro di me Ares, e chissà quanti altri? Cosa gli
aveva promesso per portarlo dalla sua parte?
Dovevo stare attenta. Non fidarmi troppo di nessuno. Trovare chi
avesse attentato alla mia vita e allontanarlo dall’Olimpo per sempre,
questo era lo scopo che mi ero prefissata di raggiungere. Non avrei
permesso più a nessuno di farmi del male.
Avevo bisogno di quella vendetta. Ero rinata senza una famiglia,
con la consapevolezza che dovevo essere forte o sarei stata
schiacciata. Avevo dovuto imparare a non chiedere aiuto. Qualcuno
doveva pagare per la mia adolescenza rubata.
Ero così stanca che chiusi gli occhi e mi addormentai con la
rabbia che cresceva nel mio cuore…

se vi ha catturato, vi consiglio l’acquisto o in libreria o su Amazon…

come sempre vi invito a lasciare un commento e a mettere un like all’articolo.

Intervista a Ester Giacco.

ESTER GIACCO

La fotografia che per me è sinonimo di adrenalina…ad ogni “click” è un’emozione.

di Simona Mileto

1) Parlaci un po’ di te, qual è il tuo percorso professionale e artistico?

Salve, mi chiamo Ester Giacco, in arte “ES-senziale” (un insieme di significati per me, sinonimo di “la parte insita di Ester e tutto ciò che per lei è essenziale”), ho 31 anni, vivo a Polistena, e ho conseguito gli studi quinquennali presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, ho un master in “Metodologie Didattiche, Psicologiche, Antropologiche e Teoria e Metodi di Progettazione” e sono un’arte terapista.

La mia ricerca artistica verte già da molti anni sul tema del “ricordo”, e quotidianamente congelo attimi di bellezza con la mia fotocamera, cercando di dare il giusto valore alle piccolezze quotidiane, quelle che da tutti vengono ritenute scontate ma che in realtà non lo sono. Molto caro a me è tutto ciò che è naturale, e che nasce spontaneamente sulla faccia della terra ed è un tema che ricorre molto nei miei lavori.

Mi piace includere spesso e volentieri nei miei progetti artistici persone non abitualmente dedite all’arte, sia per cercare di sensibilizzare tutti, sia perché l’arte relazionale mi affascina, mi piace il fatto di avere sullo stesso tema di base tantissime sfumature diverse date dai vari componenti facenti parte del progetto.

 Nel tempo libero, oltre a fotografare, dipingo e creo. Tutto ciò che creo parte sempre da un’idea, da un concetto, infatti faccio distinzione tra “arte del bello” e “arte del sentire” prediligendo la seconda.

2) Come ti sei avvicinata alla fotografia?

Non so con precisione quando e come mi avvicinai alla fotografia. Ricordo che circa sei anni fa un malessere interiore, dovuto ad una grande delusione d’amore, mi spinse a ricercare la bellezza, quella bellezza che in pochi riuscivano a vedere e allora pensai che il “medium” più veloce per comunicare qualcosa agli altri e per incanalare nella giusta direzione un mio sentimento esplosivo fosse la fotografia.

 La fotografia che riesce ad essere così uguale visivamente alla realtà ma così diversa da ciò che percepiamo vivendola. La fotografia che ti permette di “riessere lì” ogni qualvolta tu lo voglia.

 La fotografia che è parte della poesia, la fotografia che funge da metafora quando non trovi le parole giuste. La fotografia che per me è sinonimo di adrenalina…ad ogni “click” è un’emozione.

3) Ci puoi parlare più nello specifico dei  tuoi progetti che abbiamo visto pubblicati sulla tua pagina social?

Di progetti miei artistici ne ho infiniti, ma quelli su cui mi soffermerò in questa intervista sono tre progetti totalmente differenti tra loro ma legati da un comune tema: il ricordo.

“es-sential colors” (aurora boreale)

Il fruitore si ritrova davanti a sé sei bottigliette con dentro colori “es-senziali” (ovvero che rispecchiano dei colori naturali) e grazie alla didascalia (in questo caso aurora boreale) potrà dar luogo alla propria immaginazione proiettando interiormente (solo con l’ aiuto dei colori che ha visto) il proprio “quadro”, descritto solo testualmente da me. E’ una serie da 16 installazioni e ha il principale scopo di sollecitare la fantasia dello spettatore e di non limitargli la propria mente a qualcosa di già otticamente esistente.

“es-temporanea di un viaggio interiore” (diario di una quarantena)

L’esordio di questo progetto coincide con l’inizio del primo lockdown nazionale, dovuto alla pandemia.

E’ una sorta di diario personale quotidiano, di un mio viaggio interiore (come suggerisce il titolo d’ altronde), esplicato attraverso svariate forme di arte. 55 giorni tra acrilici, tra matite, tra acquerelli, tra fotografia, tra lana, tra argilla, tra colori a cera, ma anche tra elementi naturali come olio d’oliva,  caffè e fiorellini. Questa sopra è l’es-temporanea del 21° giorno, ho dipinto ad acquerello degli alberi di pesco su una (ormai famosa) autocertificazione (richiesta dal D.P.C.M. per giustificare le uscite dalla propria abitazione

“inter-conn-es-sione”

E’ un progetto di arte relazionale (ovvero che coinvolge più persone a divenire coautore dell’opera).

Punta al recupero del vintage, visto che ormai si scatta in digitale e non più in analogico, quindi raramente nel presente e nel futuro vedremo ancora negativi fotografici.

Ogni negativo fotografico (appartenente al singolo partecipante al progetto) è affiancato ad una parola-chiave (pensata da me) che si riferisce al proprietario del negativo. Il risultato è una connessione tra ricordi differenti che riguardano il medesimo soggetto. Il fruitore esterno attiverà la propria memoria visiva e leggendo la parola-chiave creerà mentalmente una propria immagine differente da tutti gli altri fruitori.

Nel caso di questo negativo sopra, il ricordo è di Valeria (partecipante al progetto) ed è un albero di Natale, la parola chiave inserita da me è “CARAMELLE” perché ogni volta che le vedo mi rimandano a lei.

4) Cos’ è per te l’arte?

L’ arte per me è qualcosa di inscindibile dalla mia vita, nel senso che una comprende l’altra. E’ insita in me. Produco arte vivendo, e nella mia arte si basa la mia vita e di conseguenza anche i miei valori, le mie abitudini, le mie passioni, i miei pensieri, e tutto quello che per me è “es-senziale”.

5) Quali cambiamenti sono avvenuti in te nell’ ultimo anno? C’è qualcosa del tuo modo di vivere che nessuna pandemia può eliminare?

In questo anno di pandemia si è solamente rafforzata in me la consapevolezza di dipendere dalla natura, dal mare in primis, e da tutto ciò che è opera del Creato. Fortunatamente nei periodi di lockdown trascorrevo almeno due orette al giorno nel mio pezzettino di “Eden”, fotografando ogni mq e facendo il  pieno di aria buona.

6) Cosa vede l’occhio del fotografo che un occhio non allenato non vede?

Credo che più che l’occhio del fotografo a vedere sia il cuore e la sensibilità, infatti penso che se tutti ci soffermassimo un po’ di più sull’apprezzare anche le minime cose vivremmo meglio e con un bagaglio non indifferente di bellezza.

7) Quanto lavoro c’è dopo lo scatto di una foto?

Non amo molto ritoccare le fotografie, mi concentro molto di più sulla costruzione prospettica prima di scattare. Cerco di dare alla mia composizione originalità, poesia, punto di vista insolito, pàthos.

Nella post-produzione solitamente ci impiego pochi minuti per ogni fotografia, modificando leggermente contrasti, luci, e ombre. Di fondamentale importanza è la visione “pulita” dell’immagine e la simmetria.

8) Quali progetti hai per il futuro e per le tue fotografie?

L’ unico progetto certo che ho in mente è quello di non smettere mai di produrre, di creare. “L’appetito vien mangiando” si dice, e io vivendo giorno dopo giorno, in base alle circostanze e a ciò che sento interiormente lo traduco con i mezzi migliori che ho, che sia la fotografia, il video, la pittura, l’installazione, ecc.

come sempre invito chi ci legge a lasciare un commento…

Simona Mileto

ECCO CHI ERA QUELL’OMBRA…

di Simona Mileto

Non ho mai avuto paura di raccontare la mia storia, la vita che il destino ha scelto per me, ha disegnato la donna che sono oggi.

Correva l’anno 2009 avevo 24 anni e terminato il liceo, ho iniziato subito a lavorare, di soldi per pagarmi l’università non ce n’erano molti e io avevo cominciato a lavorare con la speranza di poter mettere qualche soldino da parte e mantenermi gli studi. Avevo moltissimi sogni e non intendevo scendere a compromessi per realizzarli. Ma la vita cambia!

Era una mattina come tutte le altre, forse mi sentivo un po’ stanca, era stata una settimana pesante e non vedevo l’ora che arrivasse il week-end per potermi riposare. Quella mattina dovetti lasciare prima il posto di lavoro, non mi sentivo affatto bene, non sapevo che non ci sarei più tornata, che quello sarebbe diventato un lavoro troppo pesante per me.

Oltre a una fatica incredibile e un dolore alla gamba destra, il fischio all’orecchio destro e la vista appannata erano le cose che mi preoccupavano di più!

Cominciarono una serie di visite interminabili e alle volte molto dolorose e fastidiose un correre tra le corsie degli ospedali, la domanda era sempre la stessa: qual è la diagnosi, la causa di quei sintomi. Mi lasciarono per mesi senza risposta, con un dubbio che mi logorava dentro. La diagnosi tardiva mi fece capire chi era!

Ero posseduta da un demone!

Si dice che ognuno ha i suoi demoni, la mia si chiama Sclerosi Multipla!

Il primo anno è stata dura, non ero più io, non mi riconoscevo nei gesti e avevo timore che finisse davvero male per me! Le persone mi guardavano con la pena negli occhi, quando ho cominciato a dirlo, alcuni miei amici si sono messi a piangere, altri li ho persi lungo il cammino, (due personalità sono troppe impegnative!) complice anche la grande ignoranza che c’è su questa malattia, come su molte altre. La gente parla spesso per sentito dire e per partito preso, non si rendono conto che ognuno ha il suo volume di sensibilità preimpostato e le parole possono fare male a chi è molto emotivo, o peggio ancora, a chi non sa perfettamente quale sarà il suo percorso da lì in poi. Questo demone, si impossessa per la maggior parte di giovani donne, dai 20 ai 40 anni, purtroppo negli ultimi anni l’asticella si è abbassata, anche adolescenti entrano a far parte per team, e a quell’età le emozioni sono amplificate. E si, noi siamo un team, ci riconosciamo, non vi so spiegare perché, ma sappiamo se un’altra persona è posseduta dallo stesso demone, forse ne vediamo l’ombra e quei segni invisibili che lascia addosso, percepiamo quella piccola vibrazione nella mano, o il modo di camminare un po’ incerto, che altri non notano.

Gli amici, invece, li ho incontrati mentre mi aspettavano ai margini della strada e adesso che stiamo percorrendo questo pezzo di vita insieme, mi vedono mutare all’improvviso, diventare goffa e lenta, claudicante, quasi ubriaca alle volte, ma mi sorridono e mi tendono la mano, capiscono che è arrivato il momento di riposarsi un po’. Essere accettati per quello che si è, è la più bella forma di rispetto che un altro essere umano, che non può capire minimante lo stato in cui ti trovi, ti dà, semplicemente perché ti vuole bene, e non perché le fai compassione. Accettarsi, con o senza demone, è l’unico modo per essere accettati dagli altri.

Ho dovuto fare pace con me stessa, mettere a tacere quelle voci dentro la mia testa che mi dicevano che la mia vita, così come la conoscevo, sarebbe finita, che mi sarei seduta su una sedia e non sarei più riuscita a muovermi, sarei dovuta scendere a patti e rinunciare ai miei sogni, ma come sapete così non è stato!

Ho lavorato tanto su me stessa, ho cercato di capire quali erano i miei limiti, dove si trovavano quei paletti e quali erano le mie armi per abbatterli. Ho imparato perché la tartaruga vince sulla lepre, perché con calma e pazienza si ottiene tutto. Continuo a combattere ogni giorno non mollo mai…chi si ferma è perduto!

Poi, finalmente, sono uscita fuori allo scoperto, ho incontrato altre persone che come me, ogni giorno, lottano, chi più e chi meno per arrivare al tramonto di quel giorno. Da loro, ho imparato ancora tante altre cose, ed è nata in me quella consapevolezza che io non sono Simona e ho la sclerosi multipla, ma semplicemente Simona e posso raccontare con molta tranquillità il mio cammino, le mie vittore e anche le mie sconfitte, perché fanno parte delle mie vita.

È iniziata così la mia campagna per sostenere e far uscire dall’incubo molte persone, costrette a stare piegate da quel fardello pesante che si portano sulla schiena. A me, il mio demone cammina di fianco. È tutta una questione di testa, se ti mostri debole, se hai perfino paura di pronunciare quel nome, lei diventa forte, si nutre di te e vive la tua vita. Da quel momento, ho cominciato a raccontare la mia storia, parlarne è l’unico modo che conosco per esorcizzarla e invito sempre chi mi ascolta a non nascondersi, a non aver timore di parlare di lei si può vivere una vita serena, si deve solo avere la forza di vivere.

Simona Mileto

Se vi va, lasciate un like o un commento… non vedo l’ora di rispondervi!!!

…in debito di una costola

di Rosaria Tropepe

dalla libreria PG Frassati di Francesco Scarcella consigli di lettura

Come ogni anno, all’approssimarsi dell’8 marzo il web viene saturato da frasi, citazioni, aforismi ad hoc che permettono ad ognuno, con parole a prestito o proprie, di dire la sua su questa giornata.

Potevano mancare le mie? Molti risponderanno a questa domanda con un “sì, potevano”, altri con un gentile “ma anche no”, qualcuno con un legittimo “ma sai a me?” e qualche amic@ leggerà.

 La risposta che più conta è la mia: me l‘hanno chiesto, io lo faccio, voi fate come credete.

 Però, ve lo confesso, mi piacerebbe condividere alcune riflessioni espresse tra il serio e il faceto e vedere cosa ne viene fuori. Alla fine, scrivere e leggere sono atti condivisi già di per sé, no?

Proverò ad esprimere il mio pensiero, quindi, con “tecnica mista” partendo da parole prese in prestito e finendo con le mie e, nella fattispecie ho scelto queste:

La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore ma dal lato, per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata.”

William Shakespeare

Ecco, la prima volta che ho letto queste parole la mia prima reazione, ancor prima di leggerne l’autore fu esclamare neanche tanto silenziosamente “ e sticà!”.

Il fatto che a scriverle sia stato qualcuno di cui non mi sento degna neanche di pronunciare il nome mi ha indotto a contestualizzare il periodo storico in cui è vissuto il nostro e ricordare che, comunque, era già avanti duemila spanne da chiunque, distanza non ancora completamente colmata, tra l’altro.

Ciò non toglie che alcune…no, molte…vabbè quasi tutte le cose declamate mi lasciano perplessa.

Ma andiamo con ordine.

Primo: l’autore si riferisce alla Bibbia, Genesi, in cui si dice che Dio creò l’uomo impastando del fango e alitandoci dentro il suo spirito. Subito dopo, si rese conto che da solo sarebbe stato molto triste e pensò a qualcuno che “gli fosse simile”, attenzione non UGUALE ma simile. Tralasciando il particolare che tanto trascurabile non è, io mi chiedo come mai Dio con tutto il Creato appena creato, intonso, integro non abbia preso un altro pezzo di fango e non ci abbia respirato su. La prima, grande disparità, dunque, si ha proprio in questa scelta. E le donne nascono, dunque, già in debito di una costola e già, in qualche modo, appartenente all’uomo. E glissiamo sulla presunta liaison con il serpente…

E parlando della costola, appunto, abbiamo notizie se si trattasse di una costola sinistra o una destra? Perché nel primo caso ci starebbe la vicinanza con il cuore ma nel secondo logisticamente andremmo più ad interessare il fegato e sappiamo come questo organo venga tirato in ballo spesso per questioni che hanno a che fare con la fine di un amore piuttosto che altro.

Terzo punto in questione: da sotto il braccio per proteggerla. Proteggerla da chi che erano in due? Allora già si sapeva che la Donna non se la sarebbe passata tanto bene! E perché non provvedere per tempo, magari modificando qualche pezzo difettoso quando il modello era ancora in fabbrica?

Dio non può aver portato avanti un progetto pensando che una parte dell’opera avrebbe danneggiato l’altra! Se è vero, come è vero, che il motore primo, ultimo e unico di Dio è stato l’Amore io sono certa che in suo nome egli abbia dato a tutte le sue creature pari possibilità, uguali capacità di realizzarsi regalando la meraviglia dell’essere diversi e per questo completarsi e arricchirsi camminandosi accanto, si, ma con la libertà di scegliere strade diverse quando si sente che il cammino insieme non appaga più senza che uno si senta in diritto di reclamare quella costola fino al punto di uccidere per affermarne il possesso. Quella costola è stato un dono ripagato mille e mille e mille e mille volte, una per ogni figlio dell’Umanità apparso su questa Terra e partorito con dolore, oggi come all’inizio dei tempi.

E allora, direte voi, dove vuoi andare a parare? Da nessuna parte, sinceramente, se non verso quel punto del cammino di tutti noi in cui l’8 marzo sarà davvero una festa perché al momento non lo è affatto, perché il cammino è stato e sarà ancora lungo e, spesso, a noi donne sembra di aver camminato sul posto senza esserci allontanate di un passo dall’ingresso delle caverne da dove, tra l’altro, uscivamo come e con gli uomini per cacciare, dove abbiamo magari anche dipinto sulle pareti una storia che nessuno ha voluto raccontare.

Ecco, è che ad un certo punto, secondo me, il racconto ha cambiato respiro e le due creature nate dall’Amore per amare si sono perse di vista, pur rimanendo vicine, separate da veli di convenzioni sociali, pregiudizi di comodo e regole a senso unico e questo ha alterato l’equilibrio del mondo intero perché, in quanto componenti di un unico sistema, questo non può vivere se anche una sola delle sue parti è in sofferenza e affinché ciò non avvenga è vitale che a quel punto si arrivi insieme, nel rispetto delle parti, nel riconoscimento dei compiti e dei diritti di tutti, senza bisogno di scadenze per ricordare al mondo che la Donna è uguale all’Uomo nella stessa, identica misura in cui l’Uomo è uguale alla Donna.

Io credo che se è vero che Lui, comunque lo si voglia chiamare, ci ha creato a sua immagine e somiglianza, vuol dire che entrambi portiamo in noi il suo segno e non gli stiamo facendo fare una bella figura finché continueremo a sottomettere e uccidere.

Si dice che Dio è solo. Forse per questo ha voluto farci coppia, per non essere come lui nel portare da soli sulle spalle ogni giorno come un fardello di solitudine. Cerchiamo di esserne degni.

E tu, William, perdonami se ho usato indegnamente le tue parole ma non potevo fare diversamente per parlare di Dio se non usando quelle di uno dei suoi figli meglio riusciti in quanto narratore dell’Amore. Grazie.

Rosaria Tropepe

“Quando nasci donna, in qualunque posto del mondo tu viva, sai già che dovrai fare il doppio della fatica e del lavoro di un uomo. Ma sai anche che ogni piccola conquista ha il dolce sapore di una vittoria.”

Amalia Papasidero

Quando la società sarà capace di cogliere l’essenza della “mimosa” tutti i giorni dell’anno l’otto marzo avrà un profumo diverso. L’uomo non dimentichi che è dalla donna che nasce la vita.

Salvatore Berlingeri

Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società”
Desidero ricordare una Donna che ha donato il suo sapere alla scienza, che ha manifestato opinioni anche a carattere sociale verso i cittadini, portando avanti ideali e obiettivi per se stessa e per la scienza. In diversi momenti e interviste, Rita Levi Montalcini ha sempre sostenuto e creduto nelle donne, ma come genere umano, non come movimento femminista. Pertanto la cultura, l’arte, la moda, la scienza, lo spettacolo, la vita sociale, non bisogna fermarle difronte al genere; bisogna proseguire verso i propri scopi e senza farsi travolgere dalla società, Voglio ricordare la festa della donna non come un movimento femminista del singolo giorno, no come un giorno di festa, con fiori e dolci, ma come un giorno di vittoria per le DONNE che proseguono la loro lotta quotidiana portando con sé cicatrici, ostacoli, ferite provocate dall’ignoranza del prossimo.

Angelo Galluccio

ringraziamo i soci di Arte che parla per il loro contributo!

la città di vapore

di Carlos Ruiz Zafòn

Titolo: La città di vapore

Autore: Carlos Ruiz Zafòn

Editore: Mondadori

Serie: Autoconclusivo

Data pubblicazione: 10/2/21

Genere: Racconti

Pagine: 180

L’ultima opera dell’autore de “L’ombra del vento”, l’omaggio letterario con cui Carlos Ruiz Zafón ha voluto congedarsi per sempre dai suoi lettori. «Posso evocare i volti dei bambini del quartiere della Ribera con cui a volte giocavo o facevo a botte per strada, ma non ce n’è nessuno che desideri riscattare dal paese dell’indifferenza. Nessuno tranne quello di Blanca.» Si apre così la raccolta di racconti che lo scrittore della saga del Cimitero dei libri dimenticati ha voluto lasciare ai suoi lettori. Un ragazzino decide di diventare scrittore quando scopre che i suoi racconti richiamano l’attenzione della ricca bambina che gli ha rubato il cuore. Un architetto fugge da Costantinopoli con gli schizzi di un progetto per una biblioteca inespugnabile. Un uomo misterioso vuole convincere Cervantes a scrivere il libro che non è mai esistito. E Gaudí, navigando verso un misterioso appuntamento a New York, si diletta con luce e vapore, la materia di cui dovrebbero essere fatte le città. “La città di vapore” è una vera e propria estensione dell’universo narrativo della saga di Zafón: pagine che raccontano la costruzione della mitica biblioteca, che svelano aspetti sconosciuti di alcuni dei suoi celebri personaggi e che rievocano da vicino i paesaggi e le atmosfere così care ai lettori. Scrittori maledetti, architetti visionari, edifici fantasmagorici e una Barcellona avvolta nel mistero popolano queste pagine. Per la prima volta pubblicati in Italia, i racconti della “Città di vapore” ci conducono in un luogo in cui, come per magia, riascoltiamo per l’ultima volta la voce inconfondibile dello scrittore che ci ha fatto sognare. ( SINOSSI)

IL MIO PENSIERO SU….

Il 2020 è stato un anno difficile e da dimenticare, la pandemia ci ha portato via tanto, anche molti artisti che hanno fatto Storia. Tra questi anche un autore, che ho scoperto grazie a una cara amica, la quale mi regalò il primo volume della tetralogia del Cimitero dei libri dimenticati: Carlos Ruiz Zafόn.

La città di vapore, l’ultimo capolavoro del nostro autore, chiude in un certo senso, la storia che lo ha reso famoso, una serie di racconti che ci portano ancora una volta tra le vie di una Barcellona tetra e avvolta nella nebbia. Ritroviamo, tra un racconto e l’altro i nostri personaggi preferiti e ne scopriamo di nuovi.

Le storie fantastiche, che l’autore ci racconta, sono affascinanti e mai banali, come sempre nel suo stile, ci fa scoprire scenari e storie di uomini dal passato oscuro e dal destino spesso incerto, quasi mai a lieto fine. Troviamo nei racconti anche personaggi come Cervantes e Gaudì che si ritrovano protagonisti di storie costruite dall’autore.

Se già conosci l’autore e i suoi libri non c’è bisogno di aggiungere altro, per chi ancora non ha cominciato a leggere i suoi libri, consiglio di iniziare proprio con i racconti “la città di vapore” per avere un assaggio del suo stile e delle sue storie.

biografia

Carlos Ruiz Zafón (Barcellona, 1964 – Los Angeles, 2020) è uno degli scrittori più conosciuti nel panorama della letteratura internazionale dei nostri giorni e l’autore spagnolo più letto in tutto il mondo dopo Cervantes. Le sue opere sono state tradotte in più di cinquanta lingue. Ha cominciato la sua carriera nel 1993 con un libro per ragazzi, Il Principe della Nebbia, che, insieme a Il Palazzo della Mezzanotte e Le luci di settembre, forma la “Trilogia della Nebbia”. A questa serie è seguito poi Marina. Nel 2001 ha pubblicato L’ombra del vento, il primo romanzo della saga del “Cimitero dei Libri Dimenticati”, che comprende Il gioco dell’angelo, Il Prigioniero del Cielo e Il Labirinto degli Spiriti: un universo letterario che si è trasformato in uno dei più grandi fenomeni editoriali dei cinque continenti. I suoi romanzi, in Italia, sono tutti pubblicati da Mondadori. La città di vapore è uscito postumo in Spagna nel 2020.

Il libro è disponibile nella Libreria P.G. Frassati di Francesco Scarcella
via Gregorio VII, 4 89013 Gioia Tauro, Calabria

sito web http://www.libreriafrassati.it/ tel.0966 506726 email info@libreriafrassati.it

SIMONA MILETO.

Nascita del Fluid Painting o Drip Painting

di Francesco Catania

         La tecnica di pittura di Pollock è il “drip painting”, uno stile che si diffuse tra gli anni quaranta e sessanta del novecento.

È un modo di dipingere in cui il colore viene fatto gocciolare (to drip, in inglese), lanciato o schizzato sulle tele. L’opera terminata enfatizza l’atto fisico della pittura stessa. Pollock realizza le sue opere con procedimenti automatici, gesti incondizionati e spontanei, come i surrealisti. I suoi lavori non nascono come “arte studiata” ma si affidano in parte anche al caso, dipingendo in modo impulsivo e istintivo. Utilizzava degli smalti industriali molto economici.

           Fluid Art o Fluid Painting è la nuova corrente artistica contemporanea che sta prendendo sempre più piede anche in Italia.

È un metodo di pittura che utilizza la vernice acrilica in colata per creare forme libere di pittura organica con colori ricchi e vivaci arricchiti, volendo, da celle.

Non sono necessari pennelli o vernici speciali, la creatività è l’unico elemento fondamentale che serve per creare qualcosa di veramente unico.

La chiave per una buona realizzazione dell’opera è la consistenza della vernice che si va a versare o modellare. Sono consigliati per questo genere di tecnica gli acrilici fluidi con una consistenza molto più sottile rispetto agli acrilici pesanti.

Un altro elemento essenziale per il Fluid Art è mantenere il tuo spazio pulito! Ovviamente, questa è una forma d’arte che può diventare disordinata, quindi si possono usare dei fogli di plastica o di carta per evitare che il tavolo o la superficie dove si lavora, si sporchi.

La sperimentazione è fondamentale, ma due tecniche di base per versare la vernice consentono di iniziare un viaggio per la creazione del tuo capolavoro psichedelico: straight e dirty pouring.

Qualsiasi tecnica si scelga, l’artista deve assicurarsi di lavorare su una superficie piana per ottenere i migliori risultati possibili, sia mentre si versa l’acrilico  che quando si lascia asciugare il vostro dipinto.